Madre definisce “incapace” l’insegnante della figlia: condanna sacrosanta
A inchiodare la donna non solo il contenuto dello scritto, ma anche l’essersi basata unicamente sul racconto fatto dalla figlia. Impossibile parlare di legittimo esercizio del diritto di critica

Esposto al Ministero dell’Istruzione, mamma definisce “incapace” un insegnante della figlia: sacrosanto parlare di diffamazione. Questa la posizione dei giudici (sentenza numero 630 dell’8 gennaio 2025 della Cassazione), i quali hanno reso definitiva la condanna di una donna, a fronte dell’evidente offesa resa alla reputazione del docente. A inchiodare la donna non solo il contenuto dello scritto, ma anche l’essersi basata unicamente sul racconto fatto dalla figlia. Impossibile parlare di legittimo esercizio del diritto di critica. Scenario della triste vicenda è una scuola in Emilia Romagna. Protagonista in negativo è una madre che, a fronte delle lamentele della figlia in merito all’interrogazione subita a scuola – e conclusasi con un pessimo voto – ad opera del docente di ‘Educazione Fisica’, pensa bene di scrivere un esposto agli uffici territoriali del Ministero dell’Istruzione, denunciando, in sostanza, il comportamento dell’insegnante, definito, nero su bianco, “un incapace”. Alla base della lamentela della donna c’è un elemento preciso: la condotta, inadeguata, a suo dire, del docente a fronte dei disturbi dell’apprendimento di sua figlia. Per i giudici di merito, però, la versione fornita dalla donna non regge. Al contrario, è sacrosanto catalogare come diffamatorio l’esposto con cui la donna ha criticato aspramente il docente, offendendone la reputazione. Illuminante la valutazione del contenuto dello scritto incriminato, scritto in cui, come detto, la donna ha fortemente contestato il docente, arrivando addirittura a dargli dell’“incapace”. E tale offesa non può essere ridotta, come preteso dalla difesa, spiegano i giudici, ad una critica solo aspra e tagliente, poiché essa si traduce, invece, in una vera e propria aggressione ad hominem, tanto più nel contesto in cui lo scritto è stato redatto, ossia in una situazione in cui la donna aveva acquisito soltanto la versione offertale dalla figlia e dunque possedeva una conoscenza del fatto inevitabilmente non oggettiva e filtrata dall’univoca interpretazione datane dalla ragazza, senza avere minimamente avvertito il bisogno di sentire anche l’altra campana, ossia il docente.